La pittura di Alba Amoruso
(dal catalogo: "Battiti dell'Arte nel Cuore della Città" a cura di MARIA VINELLA, dedicato alla mostra sulla megalopoli presso il Foyer del Teatro Petruzzelli di Bari dal 17 settembre al 30 ottobre 2011)
La pittura è per Alba Amoruso - sin dagli inizi della sua avventura artistica —
un'occasione di fuga mentale, volo liberatorio, ricerca dell'infinito. E' deriva del
sogno e sguardo visionario. E' creazione di nuove immagini del mondo inaspettate
e sorprendenti.
Dopo gli anni giovanili dedicati all'illustrazione, la storia espressiva dell'artista
prende avvio negli anni Ottanta, quando realizza i primi cicli ad olio. La sua
formazione pittorica è da autodidatta, da appassionata osservatrice d'arte e
sperimentatrice fantasiosa. I lavori da esordiente si affidano a un naturalismo
figurativo mediterraneo, un universo vegetale velato di stupefazione, calde
atmosfere, profumi selvatici, Sagome e forme eleganti come arabeschi appaiono
in micropaesaggi racchiusi in dettagli floreali e foglie giganti.
L'occhio acuto e instancabile dell'artista scruta i luoghi magici della natura e
crea metafore oniriche dell'Eden perduto, giardini mitici inviolati. In tali
ambientazioni immaginarie si concretizzano pittoricamente emozioni e sogni,
suggestioni e desideri, visioni primordiali sospese nel tempo di spazi indefiniti.
La natura, riferimento vitale e rigeneratore, è intesa come grembo originario,
fonte di energia materiale e spirituale. Campo aperto non solo alle vibrazioni
dell'intimo ma anche al respiro cosmico dell'universo.
A metà anni Novanta l'universo vegetale lascia il posto a paesaggi incantati
ricchi di allusioni poetiche, a profondità marine e ad abissi sotterranei. Scrive
nel '94 Angelo D'Ambrosio per il ciclo "Abissi e superfici":
«L'atmosfera che si respira è ovattata, immobile, adagiata sul fondali di un mare
sublimato e in bilico tra immaginazione e realtà, paura e speranza. Si avvertono
però le tracce invisibili di storie biografiche che neanche la profondità degli
abissi o la stiva di navi misteriose riescono compiutamente a celare».
In questa fase espressiva, la sensibilità cromatica deIl'artista evolve in improvvise
commistioni, e sul ciclo "rose a colazione" lei stessa appunta con cura meticolosa:
«Lavoro sul recupero della macchia di colore. Attraverso il soffio spingo il colore
molto diluito a seconda della forma che voglio realizzare. A questo punto prende
sostanza un faticoso lavoro di smarrimento e riconquista della macchia cromatica».
Lentamente, passa dall'uso della pittura ad olio agli smalti e poi agli acrilici.
Ritorna all'olio in alcuni cicli pittorici e, infine, approda definitivamente alla
tempera, grazie alla quale l'autrice celebra la luce, elemento emozionale
significativo e valore specifico della sua pittura. Da queste esperienze nasce
nel '94 il ciclo "Terracquea", viaggio allegorico nelle profondità della terra.
Spiega Paolo Fabris:
«In un grande abbraccio di colori trasparenti e pulsanti, l'amore palpitante delle
viscere della terra si densifica, lasciando una traccia profonda e chiara, un 'orma..,
[...] con la potenza degli elementi scava - con tutte le sue risorse mentali ed emotive
- nella pietra incidendo spirali, cicli vitali, canti muti della rigenerazione».
Nel '97 viene alla luce una nuova serie di lavori, dove - come scrive Oscar Iarussi -
il cielo e la terra, l'acqua e il tempo si fondono in un magico magma. I confini tra fisico
e metafisico si interrompono e nella serie "I velari", (del 1998), la ricerca espressiva
è condotta tutta nel nome del polo dialettico immagine-immaginazione, presente-assente, concretezza-evanescenza. Nel versante deIl'immaginazione spesso si cela
la memoria, la traccia che accoglie i ricordi e li conserva, sin tanto che l'artista non
li recupera e li trasferisce nel territorio dell'arte. Qui, l'essenza di ogni desiderio e di
ogni sogno, il colore di ogni gioia e di ogni dolore vengono riportati sulla tela, in leggeri
velari, malinconica testimoni dell'inespresso della vita. Questo costante e necessario
processo di deformazione del reale perviene ad una astrazione lirica dai connotati
simbolisti, dove le strategie d'interpretazione emotiva e mentale del mondo generano
altre verità, Verità che l'artista gelosamente custodisce.
La resa visiva delle opere di questo periodo è fortemente stimolante; nei perimetri
scomposti, nelle forme accennate, nel colore che deborda, ogni cosa si sgretola
e diviene quasi galleggiante nello spazio della tela. Le cromie assumono i toni
dell'ocra, del verde, dell'azzurro; i bianchi e le terre si aprono e si chiudono come
teloni di un grande boccascena per svelare forme e figure che emergono dal
sommerso.
La pittura impastata con gesti ampi e determinati è stesa con pennelli, spatole,
spugne intrise di pigmento, olii e tempere si mischiano alle colle e agli stucchi,
ai filamenti e alle velature, alle colature e alle gocciolature. I tagli di luce sulle
penombre, le velature e i graffi, le gocce e le cancellature, riaffiorano in superficie
come riaffiorano i ricordi. Tecnica privilegiata dall'artista è la tempera, rielaborata
in maniera personale tramite una stratificazione ottenuta per sottrazione della
materia cromatica a mezzo di panni e spugne, raschi e strofinature.
A fine anni Novanta l'artista realizza una serie pittorica destinata unicamente alle
architetture cittadine. Nel catalogo "Tensioni", del 1999, la documentazione dei
dipinti della serie "Resti di città" mostra scorci ambientali, angoli urbani e ampie
panoramiche.
Il passaggio agli anni Duemila è segnato da un significativo cambiamento:
svaniscono le tonalità tenui e le forme evanescenti, il tempo crolla e lo spazio
esplode. Nasce la serie delle città infiammate, dove il colore rosso e denso seduce
lo sguardo, la luce silenziosa non allaga più ogni cosa ma fende superfici e volumi.
Ponti e archi, architetture e reperti appaiono come testimonianze di una civiltà
metropolitana frenetica, arsa dall'energia delle ocre e dei bruni catramati. Le
prospettive si deformano e le inquadrature diventano espressioniste, le distorsioni
spazio-temporali alterano ogni cosa. Inesorabilmente, la città scivola negli abissi
del futuro, in bilico tra trascendenza e immanenza, luogo delle paure e dei desideri,
della perfezione e del difetto. Quinte iconografiche imponenti inventano scenografie
artificiose, riflettendo un reportage emotivo che l'artista predispone quasi per se
stessa.
Negli anni a seguire, Alba Amoruso scompone e ricompone le proprie raffigurazioni
urbane in immagini di grandi metropoli ricche di fasti e di luci, di movimento e
di vita. Poi, progressivamente, la città sana e vitale inizia ad assumere le sembianze
di una spazialità ambigua. Appare insoddisfatta e ribelle, mentre l'orchestrazione
accurata di colori, piani, luci, volumi aspira a nuove percezioni, nuove sensazioni,
nuovi immaginari. Nasce la serie pittorica delle "Megalopoli".
Attraverso un ciclo di grandi dipinti documentato nella ricca monografia "La voce
muta delle cose", Alba Amoruso racconta il percorso articolato di una città vorace, frutto di una urbanizzazione incontrollata e di un'abnorme proliferazione tecnologica. L'iconografia perturbante di un disordine artificioso e innaturale domina nei quadri. Fari e grattacieli, fumi azzurrati e vapori leggeri, volumi metallici e piani obliqui mostrano un'atmosfera liquida, dalle forme sfocate e luci accecanti.
Descrive l'artista: «Senza respiro, nasce una città nuova, con la sua personale storia di volumi urbani distorti, esasperate prospettive ai piedi delle quali scorrono fiumane di uomini e di macchine... ».
Le opere dei cielo "Megalopoli" costituiscono una impegnativa prova stilistica per Amoruso e vengono esposte in importanti mostre sia in Italia che all'estero. Gli spaccati di una quotidianità travolta dal progresso, le deformazioni di una percezione espressionistica, le atmosfere profetiche dei paesaggio antropico sono evidenti nelle brevi serie pittoriche "Ecomostri" e "Stazioni" dei 2000, nelle "Acciaierie" del 2001, nelle "Aree industriali" dei 2002 e - ancora - nelle "Sopraelevate" dedicate alle tortuose visibilità urbane, in "Acque reflue" e nei "Vertical Víllage", dove i binari dei treni e le fughe dei tunnel, le file di auto e le arcate dei sottovia, costruiscono una spazialità instabile e irrequieta.
Racconta l'artista nel catalogo "Megalopoli" dei 2004:
«Odore di ruggine e fuoco al di là della secca chiostra dei grattacieli, non più cielo. Un mondo ostile e alienante si nasconde in scenari urbani inquietanti, dove la vita frettolosamente si consuma. Una spessa rete di ragno fatta da strade, tunnel, sopraelevate, strangola gli abitanti il malessere diventa solido e oscura la luce del sole...».
Nei dipinti delle megalopoli, la narrazione dell'evoluzione urbana è affidata a sfondi ambientali sfaccettati e molteplici. La natura svuotata di senso appare impotente contro il progresso, eppure esplode in un turbinio che seduce la percezione.
Tutti simili tra loro, i paesaggi urbani della nostra contemporaneità vivono in un eterno e caotico presente privo di un'anima, immemori dei passato e incapaci di prevedere il futuro. Ammassi spaziali informi in cui milioni di individualità si incrociano, sono rappresentativi della nostra epoca caratterizzata dalla assoluta precarietà, dal transito solitario, dalla pericolosa provvisorietà.
Dalla nascita alla decadenza, secondo lo studioso Patrick Geddes, la polis è passata attraverso cinque stadi di evoluzione e di involuzione: la polis primitiva, la metropoli (città grande ma sana), la megalopoli (città troppo estesa e malsana), la parassitopoli (che dissangua l'ambiente), la patopoli (la città abbandonata e moribonda). A questi stadi, dal XIX secolo in poi, l'immaginario visionario di molti artisti ha dedicato note opere d'arte che evidenziano l'esaltazione dell'accelerazione temporale e la frammentazione della moltiplicazione spaziale. Futuristi, Suprematisti, Costruttivisti, Astrattisti e grandi maestri come Umberto Boccioni, Fernand Leger, Robert Delaunay, Paul Klee, Jackson Pollock ecc. hanno dipinto strade, insegne, veicoli, architetture, e hanno dato sostanza a impensati colori e impensate forme, a modi differenti di vedere, di percepire, di comprendere.
Oggi, l'habitat degradato delle metropoli postmoderne evidenzia il mosaico anonimo dei non-luoghi urbani (come li definisce l'antropologo Marc Augè), carichi dei difetti della città-labirinto, della città delle merci, della città-gabbia, della città dei vuoto.
Proprio a tali rilevanti tematiche, per circa un decennio, Alba Amoruso dedica originali e personali ricerche visive e pittoriche. Ricerche rigorose che, progressivamente, conducono all'elaborazione di nuovi cicli di opere. Nel 2005
alle luminose tele delle "Megalopoli", si
sostituiscono le opere dedicate a "Le città
impossibili" e alle "Urban Jungle", ovvero
le prime oscure "Patopoli". La nuova analisi
paesaggistica rappresenta ambienti
notturni, prospettive soffocate e combuste,
presagi di un incerto futuro ammalato di
smog, traffico, inquinamento.
Le patologie della metropoli assediata dal
progresso assumono le parvenze di vere
e proprie foreste di tubi metallici, tralicci,
grate. I monocromi dai toni bruni, creano
trasmutazioni di imponenti ammassi di
ombre spezzate da lividi lampi; rotaie
vorticose si inerpicano tra aggrovigliati
grattacieli e ingranaggi idraulici. Anche il
cielo, assediato da nubi, appare privo di
luce, opacamente ferito. La vegetazione
cerca varchi, invadendo i pochi spazi
rimasti integri.
Il cuore della città reclama un nuovo giorno
e un nuovo futuro. L'artista aggiunge alla
raffigurazione dello scenario inquieto
eppure attraente — documentato nel
catalogo "Phatopolis" — alchimie di colore
grumoso e trasparenze luminose, dando
corpo e voce al desiderio di bellezza che
resiste al degrado. La volontà di vita
prevale.
Maria Vinella